Di Antonino Trentacosti
Il Romitorio “S. Maria della Dayna di Scanzano”, distante 3 km a sud-ovest dalla Nuova Marineo, prima di essere eremo era una delle tante popolate masseria di antiche origini della zona. Ospitò contadini provenienti dai dintorni, gente che in precedenza aveva abbandonato la città di Mirnaw (sulla Montagnola) per dedicarsi all’agricoltura e albanesi arrivati in Sicilia alla fine del Quattrocento.
Riguardo a questa masseria Baldassare Zamparrone, che l’aveva visitata nel 1619 durante uno dei suoi viaggi nell’interno della Sicilia, venendo da Corleone per Palermo riporta: “Passando da Busammara (indicando la Rocca Busambra) dove sopra v’era un villaggio di Saracini, detto Calatabusamar, venimmo nella terra di Marineo, fabbricata da Francesco Bologna ... et innanti si arriva a detta terra si trova la Chiesa della Dayna. L’origine della quale fu che già sono anni 54 che sarà stato l’anno 1570 in Marineo vennero tre uomini romiti di santa vita nominato uno Fra Tommaso di Termini, l’altro Frate Domenico da Palermo e l’altro Frate Antonino da Talataxibetta. Questo frà Tommaso di Termini prima fu bandito, et essendo alla Portella di Sant’Anna, passando due frati della Mancusa, li dissi, se Dio lo poteva perdonari, et li Patri li dissiro di si, e così aggiuntosi con detto frà Domenico e Frate Antonio vennero ad abitare in detto loco, seu Masseria detta la Dayna che allora era bosco e chiamato così per causa di una certa moneta d’oro si ritrovò con esserci scolpita una Dayna. Incominzarono prima a fare capanne e dopo una Chiesa... A quanto riporta lo Zamparrone, a fondare il Romitorio di S. Maria della Dayna di Scanzano, furono tre romiti francescani provenienti dal Romitorio della Mancusa che si trovava tra Partinico e Carini, lo stesso romitorio dove dimorò e compì dei miracoli San Benedetto il Moro, il Santo che poi dimorerà, per 19 mesi, nel nuovo romitorio di Scanzano.
S. BENEDETTO IL MORO, è un santo siciliano che trascorse la sua vita da eremita itinerante sostando in vari eremi e, dopo il 1550, in vari conventi e monasteri dell’isola. Non si sa molto di quello che ha fatto durante i suoi spostamenti e di quello che ha fatto durante i suoi soggiorni nei luoghi dove si è fermato. Inoltre, gli stessi dati forniti dagli storici non sempre sono convincenti perché presentano delle discordanze. Di S. Benedetto il Moro sappiamo che è nato a San Fratello, comune del messinese a 14 chilometri da S. Agata di Militello. A causa della mancanza dei registri dell’anagrafe (perché perduti) non si sa il giorno della sua nascita, si sa che nel 1524 nella Chiesa Madre di San Fratello, con il nome di Benedetto, fu battezzato il figlio della coppia Diana-Cristoforo entrambi di colore e di religione cristiana. A fare da padrino fu un benestante e possidente di nome Manasseri Vincenzo di cui Cristofono era un dipendente con il compito di occuparsi del suo bestiame. In seguito, per il colore della pelle, il fanciullo fu denominato Benedetto il Moro. Gli antenati di Cristoforo e Diana erano di origine africana deportati nella zona di Messina come schiavi dall’Etiopia, nel Cinquecento avevano già avuto la libertà. Benedetto passò la sua fanciullezza tra gli insegnamenti religiosi dei genitori, le fatiche dei lavori agricoli e quelli dell’allevamento del bestiame di Manasseri. A 21 anni conobbe l’eremita francescano Frate Girolamo Lanza che seguiva la regola di S. Francesco e che, nell’Eremo francescano di Santa Domenica alla Platanella sito nel comune di S. Marco d’Alunzio a 30 chilometri da San Fratello, aveva appena cominciato a riunire un gruppo di romiti. Il giovane Benedetto entrò in quella comunità come novizio e come gli altri romiti si costruì la sua singola cella isolata che era una rozza casupola di qualche metro quadro. Seguì l’anno di noviziato e cominciò a provare le consuete penitenze dei romiti, il digiuno e i flagelli. Non si sa per quanto tempo la comunità rimase nell’Eremo di Santa Domenica.
Per la questua, i romiti periodicamente cambiavano zona di residenza e quindi, con tutta la comunità il superiore Girolamo Lanza dal lato settentrionale della Sicilia si spostò lungo la costa meridionale e dopo pochi anni passò dal lato opposto fermandosi in provincia di Palermo nel Romitorio della Mancusa che si trovava tra Partitico e Carini. Nell’Eremo della Mancusa, Frate Benedetto per i suoi digiuni e per le sue penitenze non si costruì la solita cella isolata come fecero gli altri romiti, ma preferì rifugiarsi in una grotta che si trovava in una zona impestata dai lupi che però non attaccarono mai il romito e questo incuriosì la gente del luogo vedendo, in Frate Benedetto, un uomo di santità e cominciarono a frequentare la grotta per chiedere guarigioni per i loro ammalati, fra questi, un caso suscitò più clamore. Un giorno gli si presentò una donna di Carini che aveva un cancro alla mammella e gli chiese di fare un segno di croce sul male che da tempo aveva curato senza ottenere risultati positivi, con quel segno la donna fu guarita. Intanto, a Palermo erano gli anni in cui si parlava di ricerca delle spoglie di S. Rosalia sul Monte Pellegrino. La comunità di Frate Girolamo Lanza, dal Romitorio della Mancusa si spostò sulla spianata del monte nelle vicinanze della grotta dove. In seguito e alla distanza esatta di cento anni dalla nascita di S. Benedetto il Moro, il 25 luglio del 1624, furono ritrovate le spoglie della “Santuzza di Palermo”. Per la dimora sulla spianata del monte, ogni romito si costruì la propria cella ma, tra quelle casupole mancava la tanto desiderata chiesetta che fu fatta costruire dall’allora Vicerè della Sicilia Duca di Mediaceli. Morto Frate Girolamo Lanza, il romito eletto dai frati per continuare a guidare la comunità fu Frate Benedetto che, quando divenne superiore dei romiti di Monte Pellegrino, era in piena gioventù e aveva superato da poco il ventesimo anno di età. Poco dopo la nomina entrò nella comunità un giovane calabrese di nome Gargano che fu chiamato Frate Francesco. Questo fu il giovane romito che il superiore Frate Benedetto si scelse per trascorrere 19 mesi nel romitorio di S. Maria della Dayna di Scanzano fondato dai tre frati della Mancusa. Frati che probabilmente il Santo conosceva già per avere dimorato nello stesso romitorio. Quando Frate Benedetto ritornò sul Monte Pellegrino era già stato eletto Papa Giulio III che, nel 1550, appena nominato, diede disposizione ai romiti francescani di uscire dalle separate e singole celle e vivere in comunità nei conventi, per cui la comunità di Monte Pellegrino si mise all’opera per costruire il convento accanto alla chiesetta. In convento vissero fino al 1559 quando fu eletto Papa Pio IV che rese più sopportabile la dura vita dei romiti francescani sgravandoli di alcune penitenze e dispose che rientrassero in un ordine religioso approvato chiudendo definitivamente, dopo due anni, la compagnia degli eremiti francescani fondata da Fra Girolamo Lanza.
Di preciso non sappiamo in quali anni e in quale periodo della sua vita rientrano i 19 mesi che S. Benedetto passò nel Romitorio di S. Maria della Dayna di Scanzano. Gli storici ritengono che si tratti degli anni in cui era superiore della comunità dei romiti francescani di Monte Pellegrino e questi, a quanto risulta, furono gli anni subito dopo la vestizione del giovane calabrese Frate Francesco (che lo accompagnò) e prima delle disposizioni di Papa Giulio III del 1550. In questo periodo, nella masseria di Scanzano, i romiti francescani (da poco arrivati dal Romitorio della Mancusa) vivevano ancora nelle singole celle isolate e avevano costruito solo la chiesa perché la modifica della masseria per adattarla a convento sarà fatta dopo il 1550 in seguito alle disposizioni di Papa Giulio III. Se nella comunità dei romiti francescani di Fra Girolamo Lanza S. Benedetto entrò a 21 anni, i 19 mesi di soggiorno a Scanzano in compagnia del giovane frate calabrese (da poco entrato nella comunità), dovrebbero coincidere con i due anni anteriori al 1550 (quindi 1548-’49), quando il Santo aveva circa 25 anni. I dati del 1619 riportati dal notaio Baldassare Zamparrone, come lui stesso dichiara, sono molto approssimativi perchè, secondo quanto scrive l’anno in cui i tre frati francescani arrivarono a Scanzano e “…incomenzaro prima a fare capanne e dopo a fare una chiesa…” (capanne che sarebbero le singole celle isolate), sarebbe il 1565 (1619-54=1565), 15 anni dopo le disposizioni di Papa Giulio III del 1550 e 6 dopo quelle di Papa Pio IV del 1559 quando S. Benedetto entra come novizio nel Convento di S. Maria di Gesù di Palermo. Infatti, è nel 1559 che, S. Benedetto, con le disposizioni di Papa Pio IV ha dovuto lasciare l’ordine dei romiti francescani e scegliere quello approvato, la sua scelta cadde nell’Ordine dei Frati Minori Riformati vestendo l’abito dei novizi nel convento suddetto. Noviziato che però non passò nello stesso convento perché dopo pochi giorni si trasferì nel Convento di S. Anna del Comune di Giuliana dove rimase per tre anni, periodo che per il Santo fu soprattutto di riflessione e di una profonda meditazione. Passati i tre anni, nel viaggio di ritorno per rientrare nel Convento di S. Maria di Gesù di Palermo, San Benedetto compie uno dei suoi miracoli. Era in compagnia del chierico Frate Antonio di Corleone il quale, arrivati nella contrada Santa Agata, prima della discesa per Piana degli Albanesi, stanco, debole e affamato, si rifiutò di proseguire. S. Benedetto, mentre cercava di rianimarlo ad un tratto si presentò un giovane con un pane ancora caldo che fu sufficiente per sfamare entrambi e portare il rimanente in convento. Di S. Benedetto si ricordano altri due miracoli consimili successi sempre durante i suoi viaggi. Uno è quello di quando si trovava in compagnia con tre frati che si lamentavano per la lunga strada che avevano percorso e per la stanchezza e la fame accumulati. Ad un tratto li sopraggiunse una persona che senza averglielo chiesto offre spontaneamente ai frati un pane e un fiasco di vino. Dopo di avere mangiato e bevuto a sazietà, i frati ridanno il pane intero e il fiasco pieno di vino così come li avevano ricevuti. L’altro miracolo successe durante uno dei suoi viaggi da Palermo ad Agrigento in compagnia con altri tre frati. Ad un certo punto incontrano un palermitano di nome Vito Polizzi che percorreva a cavallo il viaggio all’inverso. Visto i frati stanchi e a sua avviso anche affamati, offre un sacchetto di biscotti e un fiasco di vino.
I frati, dopo di avere mangiato quasi tutti i biscotti e bevuto quasi tutto il vino, ridanno al Polizzi il sacchetto e il fiasco con quello che era rimasto. Arrivato a Palermo e sceso da cavallo, il Signor Vito ha voluto approfittare dei biscotti e del vino che erano rimasti ma, con grande sorpresa si accorge che, sia l’uno che l’altro esano esattamente come li aveva offerte ai frati. Questo miracolo, Vito Polizzi lo ha narrato sotto giuramento durante il processo iniziato nel 1595 a Palermo sulle virtù e i miracoli del Santo. Processo che, dopo un susseguirsi di tappe si concluse nel 1807 quando Pio VII lo proclama santo. Di S. Benedetto si ricordano anche delle profezie. Un giorno, nel Convento di S. Maria di Gesù di Palermo, gli si presentò un mercante catalano di nome Antonio Vignes preoccupato che da 40 giorni non aveva notizie di una sua nave carica di tessuti e altra merce proveniente da Barcellona, S. Benedetto gli rispose che la nave sarebbe arrivata in porto sana e salva. Dopo alcuni giorni, il mercante gli si presentò di nuovo dicendo che la nave non era ancora arrivata e gli chiedeva il motivo di tale ritardo, il Santo gli rispose che per i vari pericoli che si erano presentati, la nave si era fermata per 15 giorni in un porto della Sardegna. Numerosi sono i miracoli di S. Benedetto che si ricordano: miracoli di guarigioni di ammalati gravi e per riportare in vita gente appena deceduta; fatti in abitazioni private, negli eremi e nei conventi dove ha vissuto. Altri miracoli che si ricordano sono quelli avvenuti durante i suoi spostamenti perché buona parte della sua vita la passò camminando a piedi nudi. Viaggi che duravano anche diversi giorni soprattutto quando si spostava da una provincia all’altra della Sicilia. Numerosi sono anche i miracoli che ha fatto dopo la sua morte e diversi nel suo paese natio. Nel Convento di S. Maria di Gesù di Palermo, S. Benedetto, che rimase analfabeta, fu maestro dei novizi e dei chierici, nel 1578 fu superiore del convento per tre anni e fu anche a servizio in cucina. Fu all’inizio del 1589 che cominciò a dare i primi segni di interruzione della sua vita terrena ammalandosi di febbre nel mese di febbraio. S. Benedetto, per le sue doti particolari, oltre ai frati, aveva tanti altri devoti e ammiratori anche fuori del convento. Uno dei primi a farle visita fu Gian Domenico Rubini, un ricco mercante di Palermo che appena lo vide si accorse subito della sua sofferenza e anche del suo grave stato di salute ma, il Santo lo riprese subito dicendo: “Per questa volta piace al Signore che io scampi di questa infermità, all’altra partirò da questa vita e sarà presto perché ho già finito il mio tempo” e cosi fu. La febbre gli ritornò dopo due mesi, il 4 aprile e il suo stato di salute si aggravava a vista d’occhio, ad un certo punto, frate Guglielmo, vedendolo grave si preparò ad accendere le candele benedette ma S. Benedetto gli disse:“figlio, non è ancora venuta l’ora, quando sarà giunta, io la dirò”. Fu poco dopo che fece cenno al frate di accendere le candele, poggiò le braccia a forma di croce sul petto, si raccomandò l’anima e spirò alle ore XVI del 4 aprile del 1589 all’età di 65 anni. Fu sepolto nella Chiesa di S. Maria di Gesù dello stesso convento dove è morto. Tuttora il corpo si conserva incorrotto. S. Benedetto il Moro, nella sua vita fu un santo che cercò di imitare al massimo S. Francesco scegliendo l’assoluta umiltà e povertà. Infatti, tranne nei momenti in cui gli fu ordinato dai suoi superiori, vestì una tonaca logora e rattoppata fatta di lana pesante e grezza che i siciliani del Cinquecento la chiamavano “Arboxo”. Da romito andò sempre a piedi nudi anche in pieno inverno e sulla neve. La cella dove viveva, la chiamava il mio palazzo. Per letto aveva una schiavina (usata anche nel medioevo) distesa al suolo, era un mantello grossolano con maniche e cappuccio. L’arredamento della sua cella, oltre alla schiavina era composto da alcune immagini di santi e da una croce segnata con il carbone su una delle pareti. Il culto a S. Benedetto il Moro si propagò in tutta Europa e anche nell’America del Sud dove è protettore delle popolazioni negre. A Palermo, è divenuto il “Santo Scavuzzo”, il Senato, nel 1713, lo inserì tra i santi protettori della città. Fu beatificato nel 1743 da Benedetto XIV e Pio VII lo canonizzò il 24 maggio del 1807.
Fonte: Il Guglielmo
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