San Benedetto da San Fratello detto il Moro: La Vita


San Benedetto da San Fratello - Uomo senza frontiere venerato in tutto il mondo"Comitato

Sito web a cura del "Comitato festeggiamenti San Benedetto il Moro" San Fratello (ME).

domenica 12 maggio 2013

Recensione del Prof. Salvatore Riolo su Benedict, la sceneggiatura di Carlo Cotti su San Benedetto da San Fratello


A chi inizia a leggerla l’opera di Carlo Cotti, intitolata Benedict, appare subito un’opera polivalente, perché, come si precisa nello stesso sottotitolo, essa è una sceneggiatura originale, ma è una sceneggiatura che si legge piacevolmente come un bel racconto. La godibilità della lettura non viene, come si potrebbe temere, minimamente intaccata dalle precise notazioni tecniche di regia che concentrano e ripartiscono il contenuto del testo in 188 scene. Anzi a me sembra che tali precise e puntuali indicazioni, scandendo lo svolgimento degli avvenimenti, aiutino il lettore a orientarsi meglio nel testo, che, pertanto è di piacevole lettura come un buon testo letterario fine a se stesso. Né, per converso, l’apparenza e la fruibilità del testo come racconto ben costruito possono costituire una controindicazione alla sua traducibilità in film, né possono pregiudicarla.
  Uno dei pregi del libro è la ricchezza dei temi trattati: si parla in esso di generazioni a confronto, dei valori della vita, delle tradizioni, della memoria e dei ricordi, del razzismo, della mafia e di tante altre cose che non voglio anticipare al lettore per non togliergli il piacere della scoperta e dell’esplorazione personale del testo. Nessuno di tali temi prevale sugli altri, ma tutti, intrecciandosi fra loro, concorrono allo svolgimento armonico della diegesi. Essendo i temi trattati così strettamente interrelati fra loro, non è facile poter stabilire quale di essi sia quello preminente, quale quello più importante.
Il libro è scritto in italiano, ma in esso si fa spesso riferimento a un altro codice linguistico che assume un ruolo importante, esso è il galloitalico. Con tale termine si definisce il dialetto di San Fratello, che è il luogo principale in cui si svolge la storia raccontata, un dialetto che è assai diverso da tutti i dialetti siciliani, perché è un dialetto di origine settentrionale.
Nella storia si fa uso del galloitalico attraverso un impiego intelligente di originari antroponimi sanfratellani. Per sottolineare l’importanza di tale uso, si ricorda che per la sua specifica funzione, che è quella di indicare una persona ben precisa, identificandola e distinguendola dalle altre della stessa comunità, il nome proprio ha un legame strettissimo con l’identità della persona cui si riferisce.
Nell’opera di Cotti la maggior parte dei personaggi ha un nome caratteristico sanfratellano, alcuni di questi antroponimi sono riportati in lingua italiana altri nell’originaria forma galloitalica. Fanno parte del primo gruppo di nomi: Cirino Filadelfio, Marianna, Alfio, Serafina, Rosalia, Biagio, che sono nomi tipici ricorrenti nell’antroponimia sanfratellana, anche se sono forme italianizzate delle originali forme galloitaliche. Appartengono al secondo gruppo: Frareu Filadelfio, Mairasa Maria Rosa, Bittu Benedetto, Arfien Alfio, Carmien Carmelo, Culina Nicola, Ngiulita Angela, Ntunien Antonio, B.lesg Biagio, Zarafina Serafina, Mtrisina Maria Teresa, che sono nomi doppiamente sanfratellani, perché, come quelli del primo gruppo, sono tipi onomastici ricorrenti nell’antroponomastica di San Fratello e, in più, non subiscono nessuna forma d’italianizzazione, ma conservano intatta la loro originaria forma dialettale galloitalica.  
Bittu e Culina sono ipocoristici: Bittu è la forma abbreviata di uso familiare che deriva dal nome galloitalico pieno B.n.rittu; Culina è diminutivo di Cala, che, a sua volta, è diminutivo dalla forma piena galloitalica N.cala.
L’importanza dell’onomastica presente nel libro non si limita a esprimere e sottolineare la sanfratellanità dell’ambientazione principale del racconto, ma va oltre, incide più in profondità nel tessuto narrativo e ci consente di poter dire che lo svolgimento di tutta la storia raccontata nel libro si compendia ed è rappresentata tutta nella storia di un solo nome, nel passaggio cioè di Benedict a Bittu. Infatti, uno dei protagonisti del libro, che è quello che gli dà il titolo, si chiama con il nome inglese Ben, che corrisponde all’italiano Benedetto, che a sua volta nel dialetto sanfratellano si dice Bittu. La parte del racconto ambientata negli Stati Uniti, inizia proprio con la scena di Benedict che si reca al capezzale del bisnonno morente, il quale, essendo sanfratellano, si rivolge al pronipote chiamandolo galloitalicamente Bittu. La cosa infastidisce Benedict che si ribella, replica e sottolinea a forza che egli non si chiama Bittu ma Benedict. E il bambino si opporrà, sempre con forza, diverse altre volte e in altre situazioni e con altre persone, quando lo chiamano Bittu. Solo alla fine del racconto, nell’ultima pagina e nell’ultima scena e nella quartultima battuta il ragazzino, abbracciando la madre, le dice, chiedendoglielo con grande trasporto, “chiamami Bittu”. Tutta la storia, ricca e interessante, raccontata nel libro di Cotti, scorre attraverso la dialettica dei due nomi e delle due identità corrispondenti, che prima si contrappongono e poi si compongono, identificando lo stesso personaggio protagonista in due diversi momenti della sua vita.
L’onomastica che, come abbiamo visto, si può considerare un filo conduttore attraverso cui si svolge il racconto, non è trattata autonomamente, non è staccata dagli altri temi, né prevarica su essi, ma si lega a essi e si lega e s’integra armonicamente.
Si lega, ad esempio, con il discorso del confronto fra generazioni. Infatti, quella di Ben è l’ultima di quattro generazioni, ed è separata dalla prima da ottanta anni di eventi; è ovvio che, passando di generazione in generazione, si perdano i punti di riferimento e le relazioni che regolavano la vita della generazione precedente. Così procedendo, si giunge alla quarta generazione che ha perso ogni contatto con il mondo delle generazioni che l’hanno preceduta.
Si lega con il tema dell’emigrazione in cui si distingue la prima generazione emigrata, che rimane legata alla madre patria anche perché, non parlando l’inglese, ha difficoltà a integrarsi nella nuova collettività. La seconda generazione, invece, frequenta le scuole americane, apprende l’inglese ma apprende anche dai genitori il dialetto materno e/o l’italiano. Dalla terza generazione si rafforzano le conoscenze linguistiche e culturali americane e s’incominciano a perdersi buona parte di quelle italiane, si allenta, così, il legame con la patria di origine dei propri nonni. Nella quarta generazione è raro trovare persone che conservano ancora consistenti tratti linguistici e culturali dell’italianità.
Si lega con il tema dell’identità. Il nome proprio è importante per definire l’identità di un individuo adulto e lo è ancora di più per un bambino di sei anni, come Benedict, che ha i problemi d’identità propri dei bambini della sua età, che hanno appena capito il posto che essi occupano nei complessi rapporti di parentela.
Si lega con il tema delle proprie origini. Se Benedict rifiuta recisamente l’attribuzione del nome Bittu e ripete di chiamarsi Benedict, lo fa non per una semplice precisazione e rettifica linguistica e neppure per una forma di abiura, ma lo fa perché non conosce il contesto linguistico e culturale da cui scaturisce tale nome.
Si lega anche con il tema delle tradizioni e della memoria collettiva. Solo dopo che la brava e informata Meirasa gli spiegherà che il Gesù bambino che tiene in braccio San Benedetto gli è stato consegnato dalla Madonna in persona, solo allora Benedict può riconciliarsi con quel santo negro che, suggestionato dal razzismo americano per i negri, egli aveva creduto un ladro di bambini. Solo quando Benedict, prende coscienza delle proprie origini, capisce che il nome Bittu non cancella, come aveva temuto, la sua identità, condannandolo all’anomia, ma la rafforza, certificandola storicamente. Allora e solo allora ha piacere e sarà orgoglioso di farsi chiamare Bittu.
Finito di divorarne il contenuto e chiuso il libro, al lettore, appagato e rigenerato dalla lettura, rimane solo un desiderio: rivedere quello che ha letto tradotto in un film, in cui la storia scritta, trasportata dalla pagina allo schermo, sia resa più coinvolgente dal susseguirsi delle immagini, che, combinandosi con le parole, rendono un racconto più incisivo ed emozionante.   

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