Di Giada Costanzo
Oltre le mura consunte di
abitazioni plasmate dal sole cocente, esiste un campetto da calcio, un luogo
anonimo ove lo sgambettare veloce e irruento, le fragorose risa e le sonanti
voci dei ragazzini esperti, colorano le vivaci giornate del borgo popolare
chiamato Ballarò. Qui, da qualche giorno troneggia un’immagine inattesa,
audace.
È l’immagine di Benedetto
Manasseri, noto anche come San Benedetto il Moro, il primo Santo di colore
della storia. Un uomo che visse e operò nella sempre multietnica metropoli
europea che è Palermo. Quella Palermo dagli angoli smussati dal ricordo della
sua storia impressa nel labirinto delle sue viuzze accese. Là, ove la fragranza
della mistura di popoli e culture si fa sonante e pervasiva di un rintoccare
costante.
San Benedetto il Moro non è
molto conosciuto, egli è eppure insieme a Santa Rosalia patrono e protettore di
Palermo.
Un frate africano divenuto
protettore di Palermo
Come suona sorprendente questa
circostanza. Eppure, mai storia fu più vera né tanto sapientemente aderente
alla realtà così spinosa di questi giorni. Seppure egli non sapesse né leggere
né scrivere, la sua bocca sapeva proferire il frutto di ogni saggezza. Poveri e
ricchi, dotti e religiosi, nobili e potenti, tutti accorrevano per ascoltare il
suo detto, ricevere la sua benedizione.
Le 63 primavere che gli regalò
la vita, Benedetto le visse sempre al fianco dei più umili, essendo egli stesso
simbolo degli ultimi: gli schiavi. Ebbene sì poiché egli, nato a San Fratello,
in quella Sicilia al tempo vicereame spagnolo, era figlio di schiavi giunti
dall’Africa. Il primo suo respiro lo aveva consumato tra i sorrisi speranzosi
di quegli uomini stanchi che in quel dì del lontano 1524 lo circondavano
affettuosi.
Al contrario dei suoi fratelli,
a lui era stata offerta la libertà sin dalla nascita. L’allora padrone Vincenzo
Manasseri, al fine d’incoraggiare i suoi due schiavi a dargli una ricca prole,
aveva difatti promesso la concessione della libertà al di loro primogenito. E
così era stato.
La sua fu una vita intensa
vissuta dapprima da eremita; nel raccoglimento della preghiera, nei digiuni e
nelle penitenze. Di lui colpiva il carisma ardente di chi sa leggere con un sol
sguardo entro il cuore di ogni essere senza contemplarne razza, nome, ceto o
provenienza. La sua fama crebbe sì ardentemente da spingere lui e i suoi
compagni, a spostarsi con costanza alla ricerca di quell’isolamento necessario
alla missione assunta.
Trascorse il resto della sua
esistenza nell’ordine dei Frati Minori di San Francesco. Un’esistenza sempre
condotta sotto l’orma impenetrabile di un sacrificio intimo, di un isolamento
ricercato; cosa che però non gli impedì mai di accorrere allorquando qualcuno
chiedesse il suo aiuto. Il senso di carità inciso nel suo animo era sì
brillante ed accecante da avvicinarlo al cuore di ogni uomo.
Nonostante i lunghi digiuni, i
costanti sacrifici, egli era sempre pronto a offrire e offrire ancora. La sua
celletta fu sempre spoglia. Il suo riposo sempre misurato, per lo più consumato
sulla lastra fredda del pavimento della sua stanzetta; là ove solo una croce
incerta, impressa sulla parete con del carbone e le immaginette di altri
santini cui era particolarmente devoto, facevano da cornice alla nudità del suo
riparo.
Una grave malattia lo esaurì
infine dopo trenta giorni trascorsi in un contralto di dolori e patimenti, il 4
aprile del 1589. Prima dell’ultimo suo respiro, Benedetto ricevette
l’Eucarestia, guardò i suoi compagni tristi in volto e chiese perdono; perdono
a tutti.
L’uomo che sino all’ultimo si
era ritenuto il più misero degli esseri e il più grande dei peccatori, fu
proclamato Santo molto tempo dopo, nel 1807, dalla Chiesa che ne riconobbe
inoltre i miracoli compiuti.
San Benedetto il Moro è ad oggi
l’emblema compiuto di una vita santa impressa sotto l’orma di una compassione
pura, scevra da limiti di razza, lingua o cultura. L’emblema di una coesistenza
che si rinnova nell’incontro con il diverso, riconoscendo in esso il valore di
una tradizione vibrante e corposa.
E ancora, l’emblema di catene
che possono infine esser sciolte
Dall’alto di quel muretto
reduce di una chiesetta ormai diroccata, che si offre silente al racconto di
una narrazione antica, si erge oggi l’immagine del Santo che torna a vegliare
su Palermo nel suo vivace trascorrere, auspicando per essa il ritmo di
un’accoglienza rinnovata, di una pace riaffiorata.
Il bellissimo murale ci viene
regalato dalla sapiente mano del grande artista Igor Scalisi Palminteri.
L’immagine di San Benedetto il Moro viene incastonata nello scintillare di una
patina dorata, testimone di una tradizione propria delle sacre icone. La sua
commissione entra nella cornice del progetto Erasmus + MATCH, promosso
dal CESIE e HANDALA di Palermo,
all’interno di “Mediterraneo
Antirazzista”.
Come suona dunque illuminante
questo titolo “Mediterraneo Antirazzista”: la manifestazione sportiva,
artistica e culturale volta alla promozione delle relazioni interculturali e
multietniche tra le diverse componenti che abitano la città metropolitana, in
un rinnovato incontro tra le contraddizioni del centro e della periferia,
dell’inclusione e dell’esclusione.
In fondo, su un campetto di
calcio tutti sono uguali indipendentemente dal colore della pelle, dalla lingua
o dal paese di provenienza
Così, in quell’angolo prima
dimenticato e spento, ove solo sporcizia ed i resti di goliardiche abitudini
trovavano dimora, si erge oggi timida una speranza nuovamente impressa sul viso
di quell’uomo pio che con la mano ferma regge il simbolo della gabbia che un
tempo s’intrecciava alla sua esistenza. La stessa gabbia che oggi si lega
inevitabilmente alla vita di coloro che anelano la speranza di una vita
dignitosa, vissuta oltre la prigionia dell’ignoranza e della discriminazione.
Le vittorie più grandi si
possono ottenere con piccoli traguardi, così come i piccoli miracoli possono
forse affiorare sul sorriso dei giovani ragazzi che incuranti delle loro
differenze, giocano insieme sull’erba stropicciata di un campetto anch’esso
prima dimenticato e oggi sapientemente assolto dal suo inesorabile logorio.
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