Lo Straordinario legame fra un albero e il primo Santo siciliano, San Benedetto da San Fratello.
di Antonino Di Dio
Se percorrendo via Oreto Nuova
in prossimità dello snodo autostradale ci si accosta e si alza lo sguardo, si
può ammirare il santuario
di San Benedetto il Moro, adiacente al cimitero di
Santa Maria di Gesù e contiguo all’omonima borgata, all’estrema periferia di
Palermo.
Osservando bene, si nota fra la
folta vegetazione che circonda di verde il Monastero, delineandolo come un’
oasi fra i brulli e sfogli versanti, quasi a metà monte, un alto e solitario
cipresso che svetta alto e maestoso.
È conosciuto col nome di “cipresso di San Benedetto il Moro”, e
deve questo appellativo ad una leggenda che vuole che il santo durante il suo
eremitaggio in questo luogo piantasse il suo bastone nel terreno e da questi
nascesse un albero che si tramutò nel prodigio che osserviamo oggi; la storia
dell’albero è dunque strettamente legata a quella del santo stesso, infatti
secondo una diversa dizione esso è conosciuto proprio col nome di “bastone di San Benedetto”, suggellando dunque
fra i fedeli e il cipresso uno stretto sentimento di spiritualità.
Non è un comune cipresso come
tutti gli altri, ha una forma strana, stroncato alla sommità probabilmente a
causa di un fulmine, si presenta poco armonioso rispetto allo stereotipo di
questi alberi. Un elemento da ritrarre in un paesaggio quasi pittoresco,
usando la fantasia; quando ci si trova sul posto si è immersi in uno scenario
simile a quello descritto da Umberto Eco in “Il Nome della Rosa”.
Lo si raggiunge facilmente
questo cipresso, dopo una breve camminata seguendo un sentiero che parte da un
ingresso quasi nascosto nel convento. In altri assunti è però un autentico
albero monumentale in quanto ha abbondantemente superato i quattro secoli di
vita: lo testimoniano i segni del tempo, come un uomo in età senile porta i
suoi.
L’ultracentenario si mostra con
orgoglio ai tanti fedeli che nella ricorrenza dei festeggiamenti in onore del
Santo accorrono in pellegrinaggi e ai numerosi appassionati e botanici.
Ci si potrebbe chiedere: perché piantare un albero, e perché proprio un
cipresso?
Forse perché il cipresso era già utilizzato ai tempi dei Romani che lo associavano ai luoghi di culto funerario?
Forse perché il cipresso era già utilizzato ai tempi dei Romani che lo associavano ai luoghi di culto funerario?
Ancor oggi infatti è presente
nei cimiteri a testimoniare l’eterno riposo dei trapassati, ma assieme al
cipresso che gode di una vita ultra millenaria, si trovano anche ulivi e
querce.
Scelto dunque non a caso fra gli alberi quasi eterni, è la sua forma conico-piramidale che sembra fornire una risposta plausibile congiuntamente al portamento che all’orizzonte sembra unire il cielo alla terra.
Scelto dunque non a caso fra gli alberi quasi eterni, è la sua forma conico-piramidale che sembra fornire una risposta plausibile congiuntamente al portamento che all’orizzonte sembra unire il cielo alla terra.
Probabilmente la verità si
trova a metà strada; in questo caso forse, bisognerebbe individuarla tra
elementi sacri e profani…
Cipressi simili troneggiano
tutt’intorno al convento ed al cimitero, non sono vecchi come quello di San
Benedetto ma il loro vetusto aspetto tradisce un’ età secolare e sebbene quelli
presenti nello
storico sacrario adiacente siano stati datati e risultino avere non meno di
duecento anni, così come lo testimoniano documenti storici che ci giungono
dalla cronaca del tempo, sono comunque già molto vecchi, praticamente i più
vecchi della città.
In passato, infatti, non furono
usati per arredare ville, parchi e giardini o scelti come alberature stradali
per abbellire la Palermo barocca durante il boom urbanistico di quegli anni,
per via proprio dell’ associazione ai cimiteri.
Fortuna che oggi comunque
sembra essere in atto un’ inversione di tendenza, consolidata dalla presenza di
questi alberi paesaggistici in numerose realtà urbane ed extraurbane.
Un esempio lampante è dato dalla presenza di quest’essenza in regioni come la
Toscana, dove esso rappresenta proprio un elemento saliente del paesaggio;
senza dimenticare il cipresso piantato nientemeno che dal Santo dei Santi
nonché Patrono d’Italia, ovvero quello di San Francesco al convento di Santa
Croce a Villa Verucchio in provincia di Rimini.
C’è un sorprendente allineamento sull’età anche da parte dei botanici che assegnano alle piante almeno quattrocento e settecento anni, analisi che si sposa benissimo con la nascita delle tradizioni.
C’è un sorprendente allineamento sull’età anche da parte dei botanici che assegnano alle piante almeno quattrocento e settecento anni, analisi che si sposa benissimo con la nascita delle tradizioni.
Il Cupressus sempervirens, questi sono il suo nome e
cognome per la scienza, è originario dall’Asia ed è stato introdotto in Italia
probabilmente a seguito delle prime dominazioni di popoli che da sempre lo
hanno usato come pianta ornamentale ma anche quali custodi di antichi rimedi; infatti,
oggi sono state riscoperte le virtù delle loro foglie di un verde glauco che
sembrano squame e che hanno proprietà balsamiche: dai rami si estrae un olio
essenziale che serve per la cura di malattie dell’apparato respiratorio.
La nomenclatura comunque la
dice lunga sulla loro longevità che può superare i duemila anni; possono
inoltre raggiungere i cinquanta metri di altezza.
È auspicabile che questa
meraviglia della natura, oltre ad essere amata e rispettata dai fedeli in
quanto autentica reliquia vivente, sia considerata come un vero monumento della città di Palermo; un
appello, dunque, rivolto all’amministrazione comunale che, nel caso di qualche
specifica esigenza, possa intervenire a tutela e sostegno dell’opera che i
religiosi del convento hanno fatto per più di quattro secoli.
Perché, anche se una pianta non
parla è pur sempre un essere vivente; se si ammala occorre prestarle cura se si
vuol preservarla.
Killer silenziosi, infatti,
oggi minacciano la loro conservazione: a finire sotto i riflettori come
principale responsabile è un parassita chiamato “Cinara Cupressi”, che è sempre esistito, ma
negli ultimi anni si è sviluppato in modo abnorme per ragioni climatiche,
collegate probabilmente all’effetto-serra e all’inquinamento.
Ai danni provocati da questi
afidi, si aggiunge la proliferazione di un secondo killer dei cipressi, un
fungo chiamato “Seiridium Cardinal” che provoca addirittura il cosiddetto
“cancro della corteccia”.
Tutelare
questi tesori vuol dire preservare una memoria sociale, storica e culturale e,
non ultimo, spirituale.
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