San Benedetto il moro, francescano nero lombardo di Sicilia.
di Leonardo Tondelli.
Brut negher, torna all’infer’n. Immaginatevi
la scena: una squadra di braccianti ha circondato un pastore, un ragazzino che
porta due buoi al pascolo. Lo prendono in giro perché è scuro di
pelle. Molto scuro. Figlio di schiavi dell’Africa nera, forse etiopi. Lui li
guarda preoccupato ma cerca di tenere basso lo sguardo, non vuole grane. Se gli
ammazzano i buoi è rovinato. E forse è a quello che puntano. Una parola
sbagliata, uno sguardo di traverso, e un coltello si fa presto
a tirar fuori…
Per
fortuna arriva il frate. Non è neanche un frate vero e proprio, è Girolamo
Lanza, un giovane di San Frareau che si è messo in testa di fare il francescano
per i fatti suoi; ha donato la sua eredità e si è trovato un eremo poco
lontano, a Santa Domenica. E insomma arriva fra Girolamo e domanda: che
succede, perché tormentate questo ragazzo? Vi ho visto, sapete. Lui non vi
ha fatto niente. È un tipo a posto, secondo me ne sentirete parlare. I
braccianti si ritirano di buon ordine: fra Girolamo sarà anche un mezzo
matto, ma il suo cognome in paese pesa ancora abbastanza.
L’eremita resta solo col pastore. Magari gli chiede: “Ma di chi sono
questi buoi?”
“Della
mia famiglia”.
“Ma tuo
padre non è Cristoforo, che ha preso il cognome di Manasseri dal padrone
che lo ha liberato? Quando mai hanno avuto animali i vecchi schiavi dei
Manasseri?”
“Li ho
comprati io”.
“Due
buoi? Con che soldi?”
“Avevo
dei risparmi”.
“E che
volevano quei braccianti? Che ti dicevano?”
“Non
ascoltavo”.
Nella
mia testa ovviamente non potevano che dargli del negher-de-merda.
Perché a Benedetto non era capitato di nascere soltanto in Sicilia, dove la sua
carnagione era già abbastanza eccezionale da creare, lo
vedremo, forme di psicosi di massa; ma tra tutti i castelli e i
villaggi di Sicilia, una serie di circostanze non chiarite avevano
portato il padrone del padre a liberarlo a San Fratello, ridente cittadina
della provincia messinese di lingua longobarda. Esatto, a San Frareau
(cattiva traduzione del latino Sanctus Filadelphus) gli abitanti
parlavano un dialetto lumbàrd, come a Nicosia, a Sperlinga, a Piazza Armerina,
ad Aidone (EN): e a differenza di Acquedolci, di Montalbano Elicona,
e di Novara di Sicilia (ME), lo parlano ancora. Non si sa neanche esattamente
quando abbiano iniziato – l’ipotesi è che queste zone siano state
ripopolate dopo l’invasione normanna (1090), trapiantando in zona
contadini e allevatori che provenivano da qualche anfratto non ben
localizzato della valpadana occidentale, una zona tra Asti, Cuneo e Savona. Oggi
insomma non li chiameremmo nemmeno lumbard: ma erano longobardi, o addirittura franzosi,
per i siciliani del tempo, che non riuscivano a capire una parola. In mille
anni poi la lingua è cambiata, a volte accettando a volte combattendo le
parlate circostanti (trovate qualche esempio di sanfratellese nei romanzi
di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio e Lunaria).
Per dire non credo proprio che oggi si dica “negher” in sanfratellano: oggi no,
ma nel Cinquecento magari sì.
“Senti,
perché non ti disfai di questi buoi?”
“Ma
sono miei”.
“Rivendili.
Potrai donare il ricavato ai poveri”.
“I miei
sono poveri”.
“A
maggior ragione”.
“E poi
che faccio?”
“Vieni
con me”.
“A fare
il frate?”
“Molto
meglio che fare il pastore. E poi cos’hai da perdere?”
“Due
buoi!”
“Non ci
crederà mai nessuno che sono tuoi”.
“E
perché non dovrebbero…”
“Perché
sei un negher!”
(Lo
sguardo di traverso che Benedetto era riuscito a risparmiarsi in mezzo
ai braccianti, ora fra Girolamo se lo prende in pieno).
“Ti ho
offeso? Scusa ma insomma, si vede da lontano. E un pastore negro qua non
s’è mai visto. Ma se vieni con me, io posso farti diventare…”
“Un
frate negro?”
“Un
santo”.
“Un
santo negro?”
“E quelli
vanno forte”.
“I
santi negri?”
“Fidati
di me. Vendi quei buoi”.
(…) Negli anni successivi, Girolamo e Benedetto dovranno spesso
cambiare eremo per seminare i pellegrini che arrivavano da tutta la Sicilia a
chiedere miracoli al frate nero. Il quale magari ci provava pure, a fare
qualche miracolo – e non è escluso che qualche guarigione gli riuscisse – in
ogni caso, male che andasse, i pellegrini potevano andare a casa e
raccontare di aver visto un frate nero. Pensateci bene: voi quand’è che avete
visto un nero per la prima volta? I vostri figli li vedono all’asilo e non fanno
nemmeno in tempo a farci caso. Io devo averne visti migliaia in televisione per
più di dieci anni, prima di incontrare un nero in carne e ossa. Cinquecento
anni fa, quando la fantasia visiva si nutriva al massimo degli affreschi e
delle vetrate delle chiese, che emozione poteva essere vedere un uomo
nero? E dopo averlo visto, scoprire che malgrado l’incredibile ed evidentissima
differenza, è proprio un uomo come noi. Mangia e beve come noi. Parla come noi
– salvo quell’accento un po’ esotico, già – lombardo.
Otto
anni nella valle di Nazara; poi a Mancusa. Qui Benedetto guarisce un
malato di troppo e il traffico di pellegrini diventa tale che i seguaci di
Girolamo decidono di trasferirsi sul Monte Pellegrino, fuori Palermo. Gli
affari andavano talmente bene che a un certo punto la Chiesa ufficiale si fece
sentire, e obbligò i francescani improvvisati a porre termine a ogni forma
di spontaneismo. A quel punto Girolamo aveva già lasciato il mondo dei vivi, e
i suoi seguaci avevano nominato superiore Benedetto. Niente male per un pastore
analfabeta. Forse anche l’idea di avere una congregazione francescana
guidata da un nero alle porte di Palermo potrebbe aver lasciato perplesso
qualche elemento della gerarchia: fatto sta che nel 1550 Pio IV revocò i permessi.
Benedetto scelse di entrare nei Frati Minori, che gli trovarono un posto nelle
cucine del convento di Sant’Anna di Giuliana. Da superiore a sguattero. La
prese bene. Fece ancora carriera: diventò capo-cuoco a Santa Maria del Gesù
(Palermo), poi guardiano del convento, e, allo scadere del mandato, maestro dei
novizi. Ma la cucina è l’ambiente che gli è rimasto più attaccato. Tra i
suoi miracoli più famosi, oltre alle guarigioni, un paio di moltiplicazioni di
pani e pesci – quel tipo di prodigio alla portata di un cuoco che
sappia gestire con oculatezza materie prime e avanzi. L’ultimo suo
viaggio, dal convento di Sant’Anna a quello di Santa Maria, lo aveva fatto tra
due ali di folla venute a toccare il taumaturgo nero. Che magari non li avrebbe
guariti, ma potevano pur sempre tornare a casa e raccontare di aver toccato un
nero.
Benedetto
lascia questa terra il quatto aprile del 1589 – 427 anni fa oggi – senza
nemmeno sospettare quanto sarebbe diventato importante. L’affetto di
confratelli e novizi, la venerazione di palermitani e messinesi non è che una
piccola frazione di quello che sta per succedere al di là dell’Atlantico. C’è
un intero continente da cristianizzare, ci sono moltitudini di neri da
battezzare, e di un santo con la pelle scura c’è un disperato bisogno. Il
processo di beatificazione a dire il vero andrà un po’ per le lunghe
(bisognerà aspettare Benedetto XIV, aka Prospero Lambertini, già
in pieno Settecento: due anni prima, nel 1743, aveva pubblicato una
severissima enciclica contro la schiavitù). Nel frattempo i francescani avevano
già stampato e diffuso milioni di santini col cuoco nero che tiene in braccio
il bambino biondo – l’iconografia più diffusa di Benedetto il moro è, in
sostanza, una copia carbone di quella di Antonio di Padova. In
Venezuela Benedetto diventa il protagonista di una settimana di
festa che prosegue il Natale fino al sei gennaio. L’idea che dietro
al santo siciliano si nasconda qualche rito non proprio omologato è qualcosa di
più di un sospetto: in Brasile a un certo punto il festeggiamento prevede
un matrimonio e un’incoronazione. A sposarsi e a regnare per un giorno
sono il re e la regina del Congo, ma anche San
Benedetto e la Madonna del Rosario.
Fonte: Il Post.it
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