Tratto da: "La Spiritualità di San Benedetto il Moro o L'Africano"
Non risulta possibile presentare la figura di San Benedetto “il Moro” senza
inquadrarla, sia pure sinteticamente, nella storia di quella terra che gli fu
doppiamente cara: per diritto di natura e per la chiamata del Signore. In una
terra, come quella di Sicilia, sottoposta al governo spagnolo e ancora alle
prese con lo schiavismo, doveva emergere la grande figura dell’apostolo
originario dell’Africa (probabilmente dell’Etiopia), che ben presto rappresentò
di fronte alla popolazione tutta, l’anelito alla libertà e la dignità
dell’uomo, sia nella sua individualità che nella sua dimensione familiare.
Dopo l’occupazione degli Aragonesi di Spagna, la Sicilia divenne un
semplice vicereame. Lo stesso Parlamento Siciliano, con la distinzione nei tre
bracci - militare, ecclesiastico, demaniale - a somiglianza delle “Cortes”
catalane e aragonesi, rappresentava solo gli interessi delle classi dominanti e
non quelle del popolo. La condizione sociale del popolo siciliano era veramente
misera: analfabetismo, indigenza e schiavitù erano dominanti. Le condizioni
dell’isola non migliorarono con Carlo V (1519 - 1556): i Viceré si
preoccupavano solo di tenere il popolo sottomesso al potere spagnolo e
raccogliere abbondanti tributi da inviare in Spagna.
Gli spagnoli, durante il periodo di Carlo V, essendo venuti a contatto con
le coste occidentali dell’Africa, con il pretesto dello stato selvaggio di
quelle genti, dove numerosi erano gli schiavi, iniziarono la tratta dei negri,
anche per supplire alle braccia che mancavano in patria per i lavori pesanti.
Questi schiavi negri, con la scusa di essere convertiti alla religione
cattolica e di essere battezzati venivano catturati e venduti in Spagna e nei
possedimenti spagnoli, compresa la Sicilia.
Questo dovette essere il destino dei genitori di san Benedetto (Cristoforo
e Diana) che vennero acquistati da ricchi signori della città di San Fratello:
l’uomo, tale Vincenzo Manasseri; la donna, dalla famiglia del nobile
cav. Lanza.
E qui giova fare un breve cenno al tema della Chiesa e della schiavitù, e
su come Benedetto, in quanto degno rappresentante della chiesa stessa, inserito
nell’Ordine Francescano, divenisse un banditore instancabile del precetto
evangelico dell’amore del prossimo, contribuendo non poco a dare una spallata
all’inumana istituzione della schiavitù.
Sfruttò la sua libertà, concessagli fin da quando era nel grembo materno e
assicuratagli dal padrone, per porsi al servizio del Maestro: questo è il
motivo principale per cui se ne diffusero in seguito la devozione e il culto in
varie nazioni d’Europa e dell’America del Sud, ove viene invocato come “Benito
da Palermo”.
Il suo quotidiano tendere, per tutta la vita, all’apostolato e
all’evangelizzazione, per un’adeguata promozione umana e per la difesa della
dignità degli uomini, nasce dalla sua consapevolezza di uomo reso libero da
Dio, dal suo aprirsi completamente a lui, come si conveniva ad un asceta e ad
un mistico che, sgombrate, per ovvi motivi, preoccupazioni culturali ed
accademiche, poteva completamente dedicarsi alla mortificazione, non tanto per
distruggere la sua corporeità, quanto per renderla un più adatto strumento
dell’anima verso la perfezione.
Senza suscitare pericolosi disordini sociali, come era nello stile
dell’Ordine religioso dei Frati Minori, cui egli decise di appartenere, e senza
reagire contro coloro che lo denigravano per il colore della pelle, l’umile
figlio di San Fratello riuscì a portare un alito di rinnovata religiosità in
una zona che reclamava comprensione, libertà e fratellanza.
Con la sua azione di propagatore del Vangelo, e insistendo sull’amore degli
uomini, ripropose l’azione di san Paolo che scosse l’edificio della schiavitù
quando, sfidando arditamente il pregiudizio e lo scandalo dei pagani, ebbe a
proclamare: “Non c’è più né Giudeo, né Greco, né Sciita, non c’è più né libero
né schiavo, perché tutti siete una sola cosa in Cristo” (Gal 3,28).
L’azione di Benedetto non poteva essere violenta: infatti, si sottopose ai
voleri del padrone e lo rispettò. Tuttavia, ciò non gl’impedì di operare concretamente.
A nome della Chiesa
affermò innanzitutto al cospetto di Dio l’ugual valore del libero e dello
schiavo. Lui stesso nobilitò il lavoro e il lavoratore contro coloro che,
invece, lo denigravano. Coi fatti (disponibilità, carità, prudenza…) scosse la
base giuridica della schiavitù, che escludeva dalla partecipazione alla vita sociale, promuovendo gli schiavi fatti
liberi agli uffici più elevati del ministero ecclesiastico: sull’esempio di
Papa Callisto, che era stato uno schiavo liberato, anche lui divenne da umile
sottoposto un membro eletto dell’Ordine di san Francesco d’Assisi.
Con la sua azione
cominciò a riformare le idee e a far comprendere che la concezione cristiana
della vita non poteva accordarsi con la schiavitù, con quello stato degradante,
cioè, per cui un uomo è proprietà di un altro, è venduto, è privato dei dolci
vincoli della famiglia e della società, quasi non avesse altro fine della sua
esistenza che quello di servire al vantaggio di un altro uomo. (Continua...)
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