Tratto da: "La Spiritualità di San Benedetto il Moro o L'Africano"
Venendo più specificatamente ai dati biografici del Nostro, dobbiamo subito
far presente che la scarsità delle fonti non ci consente di avere un quadro
preciso di tutte le vicende terrene di Benedetto. Tuttavia, da quanto
conosciuto, possiamo rappresentare l’esistenza come un itinerario terreno, cui
corrisponde anche un analogo itinerario di santità e di spiritualità, che
condusse l’umile figlio di San Fratello ad attraversare tutta l’Isola fino a
Palermo.
L’allegata cartina dell’isola ci consente, appunto di inquadrare in tale
prospettiva la vita del santo che, come molti umili figli di Sicilia, proveniva
da una famiglia di schiavi.
Infatti, nel 1520 un tale Vincenzo Manasseri aveva concesso ai genitori di Benedetto
(Cristoforo e Diana Larcàn) di sposarsi, promettendo la libertà al primo nato.
Questi erano discendenti di schiavi negri, importati dall’Africa (probabilmente
dall’Etiopia, per cui il Nostro fu chiamato anche san Benedetto il Moro Etiope
(1)
Nel 1526 nacque, dunque, come uomo libero, Benedetto. Successivamente, dal
matrimonio di Cristoforo e Diana nasceranno altri tre figli: Marco, Baldassarre
e Fradella.
Educato, fin dalla tenera età, nel santo timor di Dio, Benedetto iniziò ad
osservare con scrupolosità la legge del Signore. Da adolescente custodiva il
gregge del suo principale e fin da allora, per le sue virtù e per le sue
rigorose penitenze, fu chiamato il “santo Moro”.
Il Manasseri, che aveva riposto totale fiducia in Cristoforo, gli aveva affidato
anche la vigilanza e l’amministrazione dei magazzini della sua azienda, dai
quali costui sottraeva qualcosa delle sue personali provviste per compiere atti
di carità nei confronti dei poveri (e solo chi aveva sofferto come lui e, per
giunta, si trovava nelle condizioni di schiavo, poteva comprendere la
beneficenza).
Alcuni lavoranti, suoi colleghi, forse invidiosi dello spirito caritatevole
di Cristoforo e anche perché costui godeva della incondizionata stima del
padrone, lo accusarono di frode, tanto che il Manasseri fu costretto ad
esentarlo dall’incarico di fiducia.
Poiché a questa immeritata punizione seguì una pericolosa carestia, il
Manasseri si rese conto della falsità delle accuse e non tardò a reintegrare
Cristoforo nel primitivo lavoro.
Come avvenne per la maggior parte dei santi, anche Benedetto apprese dalla
madre l’arte di pregare. Il contatto con la natura, il lavoro nei campi,
l’esecuzione dei lavori domestici e agricoli, anche i più umili, lo resero
obbediente e servizievole. A 18 anni con i suoi risparmi acquista una coppia di
buoi e degli attrezzi agricolo, per mezzo dei quali lavora anche terreni
altrui, riuscendo a guadagnare sia per sé e la sua famiglia, sia per soddisfare
le opere di carità.
Nonostante il suo fosse un secolo di lotte, rivolte, riforme etc…, egli non
fu minimamente interessato alle numerose vicende terrene, sia religiose che
politiche: cercava il silenzio, la preghiera e la penitenza.
Malgrado questo suo ambito isolamento e questa sua aspirazione ad una vita
ritirata, capitò che un giorno venisse aspramente schermito, dopo una giornata
di faticoso lavoro, da un gruppo di contadini e giovinastri, sia per la sua
pelle nera che per la sua indole pacifica. Per caso, in quel frangente,
intervenne un certo frà Girolamo Lanza (un ex signore, nipote del card. Rebiba,
che si era dato a vita eremitica dopo aver sperimentato le vanità del mondo),
che lo difese a spada tratta, svergognando gli schernitori, ai quali predisse
le future grandezze di Benedetto.
Infatti, le parole dell’eremita Lanza: “Fra pochi anni vi stupirete nel
sentire il mondo parlare di lui” mentre, da una parte, fanno zittire i
derisori, dall’altra, invece, turbano Benedetto, cui dispiaceva un rimprovero
così perentorio e una stima immediata nei suoi riguardi.
Ma il turbamento prende ancor più i suoi genitori quando vengono a
conoscenza di un eventuale ingresso del loro figliolo nella vita eremitica. Il
Lanza, che dall’alto della sua esperienza aveva compreso il futuro del giovane
negro, profittando di un altro incontro, lo invita a vendere tutti i suoi beni
e a seguire il Signore: aveva intuito la grandezza di Benedetto.
Preso ed infiammato da un grande amore per il Signore, quando era ancora
ventenne, e quindi nel fiore della giovinezza, vendette ogni sua proprietà per
distribuirne il ricavato ai poveri ed abbracciò una vita ritirata di penitenza.
Statua di San Benedetto il Moro (San Fratello) |
Il Nostro fu chiamato da una voce umana, di un sincero eremita, capo di una
comunità. Giova, peraltro, notare come ci fosse un’affinità tra il destino del
Lanza e quello dei genitori di Benedetto. Il Cav. Lanza aveva vissuto la sua
grande e traumatica decisione quando, la sera stessa del matrimonio, supplica
la giovane moglie a voler comprendere il suo desiderio di appartenere a Dio,
disponendo per lui l’eremo e per lei il convento. Un destino simile si verifica
anche per Cristoforo e Diana, genitori del Nostro, che avevano dapprima deciso
di non mettere al mondo figli, che sarebbero nati schiavi, astenendosi dalla
procreazione.
L’invito del Lanza fu, comunque, il fatto decisivo che spinse
definitivamente Benedetto a rispondere pienamente alla chiamata di Cristo. E la
scelta eremitica apparve subito al Nostro la più adatta allo scopo.
Entrò, pertanto, nel 1545 in una comunità di anacoreti, fondata
dal Lanza nei pressi del suo paese natio (Caronia a Mare), che
seguiva le disposizioni emanate da Giulio III per i vari gruppi di religiosi
viventi fuori dagli Ordini regolari. Successivamente gli eremiti si
trasferirono, alla ricerca di maggior solitudine, sul monte Pellegrino: Benedetto
li seguì e, quando sopraggiunse la morte del Lanza, fu dai confratelli eletto
superiore.
Va ricordato, a questo proposito, per inquadrare meglio le caratteristiche
e lo spirito di questi uomini che sceglievano di vivere nell’isolamento, che il
Breve del papa Giulio III (15/03/1550) invitava i “chiamati” ad
imitare i Padri del deserto che, nei primi anni del Cristianesimo, avevano dato
prova di vita penitenziale. Il documento chiarisce, inoltre, i mezzi da usare
per condurre una vita eremitica: luogo impervio a qualsiasi altro essere umano;
tuguri per ciascuno o al massimo due, lontani un tiro di sasso l’uno
dall’altro; una cappelletta da edificare nelle vicinanze delle cellette per
celebrarvi insieme i divini misteri; vivere la regola di S. Francesco, pregando
giorno e notte e digiunando. Il Nostro, considerato che fra tutte le scene
della vita di Gesù, quella della passione era la più adatta per questo genere
di esistenza e la più congeniale per lui da imitarsi, si dà ai digiuni, alla
preghiera, ai cilizi, alla meditazione.
Appare significativo, peraltro, che Benedetto avesse scelto di praticare la
vita eremitica, dove il vero punto di riferimento era allora costituito dalla
Regola Francescana, in quanto egli, fin dalla giovinezza, era sempre vissuto
meditando la Parola di Dio e praticando la povertà evangelica. Fanciullo, forse
troppo saggio per la sua età, Benedetto si rivelerà, da giovane e da adulto,
uomo di grande equilibrio, operando tra solitudine ed accoglienza, e senza
alcuna tensione o pentimento per avere affrontato l’itinerarium ad Deum.
Non passò molto tempo che parecchi solitari, attratti dalla fama delle sue
virtù, tentarono di imitarne lo stile di vita, dando incremento all’Ordine
degli Eremiti di San Francesco organizzato da Fra Girolamo Lanza.
Le fonti ci tramandano Benedetto come un giovane di carnagione scura, per
alcuni olivastra; robusto e snello nella persona (abituato ai lavori nei campi
dell’azienda Manasseri); dotato di volto espressivo e dignitoso nel portamento
(segno di una nobile discendenza); gentile nei modi e affabile nel tratto
(carattere derivatogli soprattutto dalla madre). Insomma era adorno di ogni
prerogativa che si addice ad un “vir Dei”: era sufficiente la sua presenza per
conciliarsi l’amore di tutti. (Continua...)
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